Hunger Games è il mio Star Wars, il mio Harry Potter. La violenza, la lotta per la sopravvivenza, la mancanza praticamente totale di speranza rende questa saga l’esperimento letterario e cinematografico più ambizioso degli ultimi anni, ad un punto tale che le vicende di Katniss Everdeen, protagonista assoluta della serie interpretata da Jennifer Lawrence, diventano un punto di riferimento per chiunque intraprenda una battaglia, sia essa personale, collettiva, introspettiva o reale e profondamente fisica. Hunger Games mi ha in questo senso molto toccato perché, proprio a partire dalla spietatezza del mondo che ci circonda costruisce intorno a sé una trama di simbologie e significati davvero profondi, che ognuno può interpretare a propria discrezione.
Il Canto della Rivolta parte 2 va a concludere la storia della Ghiandaia Imitatrice, disperatamente alla ricerca di vendetta nei confronti del glaciale presidente Snow (un immenso Donald Sutherland) e, a partire dal capitolo precedente, pedina nelle mani della presidente Coin, autoproclamatasi capo della rivoluzione e determinata (fin troppo) a prendere il comando di Panem una volta che l’ultimo baluardo di Capitol City sarà crollato. La via che porta verso il traguardo finale per Katniss e il suo commando di soldati è lunga e piena di inside, quei “bacelli” costruiti ad hoc dalla dittatura non solo e non soltanto per uccidere ma anche e soprattutto per rendere la sofferenza ancor più spettacolare e comunicativa, facendo propaganda tramite il più alto livello di atrocità possibile. Il film è molto fedele al libro e, così come era stato il caso de La ragazza di fuoco, concretizza in immagini quello che già ci eravamo immaginati in testa, dagli ambienti grigi e angusti del distretto 13, allo sfarzo del palazzo presidenziale alle sembianze aliene degli ibridi del sottosuolo di Capitol.
Difficile, molto, separare il terzo capitolo della serie ideata dalla Collins (diviso in due parti, rispetto ad un unico, lungo libro) dal resto della storia, che mi aveva letteralmente fulminato fin dalle prime pagine: l’idea di punire un popolo in rivolta organizzando dei giochi al massacro in cui bambini e adolescenti dei distretti riottosi si devono ammazzare a vicenda di fronte all’occhio attento della tv è semplicemente epica e, come già detto in precedenza, apre mille strade all’interpretazione. Ora però il cerchio si chiude e bisogna tirare le somme: la guerra è davvero finita? Per molti punti di vista sì, soprattutto per i protagonisti principali che, a fatica, riescono a strappare un finale che (viste le perdite) non si può proprio definire lieto ma forse soltanto “più sereno”. Il mondo in cui viviamo purtroppo è ancora dominato dal principio dell’homo homini lupus e dalla sfiducia nel prossimo e questo si percepisce in maniera piuttosto sottile quando verso la fine si inizia a parlare del nuovo assetto post rivoluzionario. In un periodo in cui bombe, sparatorie e inganni anche fra persone della stessa cultura ed etnia riempiono quotidianamente le pagine dei giornali questo messaggio, piuttosto amaro, non avrebbe potuto essere più attuale.