Che diamine di senso ha fare la recensione di un disco uscito quasi due anni fa e del quale si è già parlato in lungo e in largo? Nessuno, apparentemente, almeno secondo le logiche del posizionamento su Google. Nel mio caso, tuttavia, è fondamentale, visto e considerato che causa mancato streaming su Spotify non avevo mai avuto la fortuna di ascoltare 1989 di Taylor Swift, l’album della svolta, l’album dei record, l’album degli awards, l’album del [aggiungi etichetta].
L’occasione, che fa l’uomo ladro, si è presentata nel corso del mio primo viaggio intercontinentale dopo quasi 17 anni: Ziomuro è infatti venuto a fare il dogsitter dalle parti di San Francisco (ho paura dei cani, btw) e prima de La Teoria del tutto, Joy e The Danish Girl si è sparato in tutta tranquillità un disco che, appunto, attendeva di potersi godere da una vita, nonostante una grossa fetta dei suoi pezzi fosse già stata pubblicata in forme varie ed eventuali. Che cosa dire, siamo di fronte ad un maestoso album pop, un disco less than perfect che traduce perfettamente in musica l’unica vera intenzione di Tay Tay. quella di conquistare il mondo.
Parliamo innanzitutto in generale: non ho avuto l’impressione che la Swift fosse una di quelle sciacquette che si piange addosso per una storia d’amore finita ma, al contrario, ho avuto la sensazione che fosse un’artista talmente tanto consapevole di sé stessa (è un pregio, beata lei) da mettere tutto il resto del mondo in secondo piano, uomini in primis. D’altra parte (mi ammazzerete) lei è un po’ il classico tipo che al liceo friendzonava noi poveri occhialuti ma faceva pompini all’intera squadra di football senza battere ciglio.
Porcate a parte, Taylor Swift ha messo su più di un’ora di musica interamente scritta da lei e composta dal genio di Max Martin e Shellback (non avrebbe potuto fare scelta migliore) con l’unica prospettiva di fare impazzire le radio americane (soprattutto) e mondiali grazie a canzoni costruite in maniera certosina, catchy, allegre e frizzanti, clamorosamente adatte per il pubblico della sua madrepatria. 1989 è di fatto un disco yankee nell’anima, il che costituisce tanto un pregio quanto un limite, visto e considerato che dalle nostre parti non è stato particolarmente apprezzato.
A sottolineare l’anima USA dell’album arriva la traccia introduttiva Welcome to New York, un omaggio alla Grande Mela con un’elettronica appena accennata che apre le danze in maniera davvero magistrale: trovandoci davanti ad un piccolo gioiello pop veniamo introdotti fin da subito a pezzoni come la tripletta assassina di Blank Space, Style e Out of the Woods (quest’ultima accompagnata da un video proprio low-profile), che ci fanno capire immediatamente il peperino con il quale stiamo avendo a che fare.
Dopo la pur sempre valida All you had to do is stay (quale cantante riesce attualmente a creare tracce riempitive così piacevoli?) giungiamo all’ascolto del pezzo con cui Taylor Swift ha svoltato, in tutti i sensi: con Shake it Off l’artista ha infatti smesso definitivamente i panni della santerella country per ricordare a tutti quanti fighi di Hollywood è riuscita a scoparsi (l’ultimo, ma solo in ordine di tempo, è Calvin Harris) e di quanto non gliene freghi fondamentalmente un cazzo dello slut-shaming. Aggiungete a tutto questo una buona dose di fiati a dare il ritmo al tutto e otterrete così la ricetta per una canzone magnifica, di quelle che al quinto ascolto fanno battere il piedino anche al peggiore degli alternativi.
E quindi la cazzimma, dicevano: Taylor Swift ne ha da vendere e ce la fa vedere (la cazzimma eh) in un pezzo come Bad Blood, nel quale lancia uno shade contro le colleghe rimaste fuori dalla sua Squad (probabilmente Katy Perry) o ancora How you get the girl, dove spiega come conquistare una ragazza, soprattutto quelle dai gusti difficili come i suoi, almeno questo è quello che si legge fra le righe. Il disco, in teoria, si dovrebbe chiudere con le dopo tutto trascurabili This Love, I Know Places e Clean ma, per fortuna, la versione Deluxe ci regala almeno altre due grosse sorprese: sto parlando della magnifica Wonderland e del settimo (!) singolo New Romantics, pezzo dove la Swift riprende un po’ il concetto che ce l’hanno tutti con lei e che solo le braccia possenti dell’amore la potranno salvare.
Alla fin fine, a causa di canzoni come queste, lo scettro di erede di regina del pop potrebbe credibilmente passare dalle mani di Lady Gaga a quelle di Taylor Swift: 1989 è un disco clamoroso, dietro al quale è stato fatto un lavoro davvero magistrale che dimostra non solo le doti artistiche della cantante ma anche uno spirito manageriale invidiabile. Adesso come adesso, mi rendo conto del perché dell’album se ne parli ancora come se fosse uscito la scorsa settimana: ho sviluppato nei confronti di Taylor Swift un’antipatia mica da ridere (ed è una sensazione condivisa) ma non posso fare altro che inchinarmi di fronte a progetti discografici di questo tipo. Ogni tanto, bisogna pure dare a Cesare quel che è di Cesare.
- Welcome To New York
- Blank Space
- Style
- Out Of The Woods
- All You Had To Do Was Stay
- Shake It Off
- I Wish You Would
- Bad Blood
- Wildest Dreams
- How You Get The Girl
- This Love
- I Know Places
- Clean
- Wonderland
- You Are In Love
- New Romantics