Come si recensisce un disco tipo Skin di Flume quando, nonostante ti faccia impazzire, tu non possa definirti esattamente il massimo esperto del genere? Semplice, si scrive di pancia, lasciando tutti i ridondanti tecnicismi a chi di elettronica se ne intende davvero. Dico tutto questo perché raramente mi sono trovato di fronte ad album così belli e scriverci sopra a cazzo di cane sarebbe davvero un gran peccato. Di conseguenza, ho dovuto per forza di cose trovare un compromesso.
Partiamo innanzitutto dallo spiegare chi è Flume e perché è valso la pena ascoltare il suo album: australiano classe 1991 (ebbene si, l’elettronica “grossa” può venire anche da luoghi diversi da Francia e Scandinavia), ha aperto il concerto dei Chemical Brothers in Italia lo scorso anno e ha dato vita ad un remix monumentale di You & Me dei Disclosure, diventato poi colonna sonora di un altrettanto eccezionale spot pubblicitario. Le collaborazioni recenti oltre a queste qui sopra non si contano, da Lorde a Fedde Legrande agli Arcade Fire passando per Sam Smith, remix di altri successi che piano piano l’hanno appunto portato a questo lavoro monumentale.
Skin è un disco che, come suggerisce il titolo, va prima ascoltato “a pelle”, particolarmente nelle tracce strumentali come 3, Pika o ancora l’assurda Helix, che apre le danze, un pezzo che parte con un lungo preludio accompagnato da un flauto nativo americano per poi riprendere la carica grazie ad un synth à la TRON. Solo che ad un certo punto partono i bassi, di quelli pesanti, tutto cambia e tu resti a bocca aperta. I brani che iniziano in un modo e sono successivamente oggetto di rimaneggiamenti (proprio quando si pensa che la canzone abbia già detto tutto quello che doveva dire) non si contano e costituiscono l’anima del disco stesso. Proprio per questo motivo, infatti, alcuni ascoltatori potrebbero rimanere (piacevolmente) spiazzati al primo ascolto: giusto per farvi capire, sentite il cambio di ritmo in Free al minuto 1:21, che poi ne riparliamo.
Fra le mille cose da dire, vi faccio notare che le cartucce migliori Flume non se le gioca con i singoloni (Say it con Tove Lo è notevole ma è una delle tracce più convenzionali, se mi passate il termine) quanto piuttosto con le sperimentazioni più ardite: in Skin c’è davvero di tutto, dalla tecnho dal sapore etnico di Wall Fuck a quella più alternative nel caso di Innocence con gli Alunageorge, che potrebbe benissimo essere un remix di una canzone a caso di Bjork. E poi c’è il rap, che ci sta come il limone sulle cozze: la mia personale fulminazione è avvenuta da subito con la meraviglia che è You Know, quasi una Gangsta’s Paradise 2016, ma anche com Smoke & Retribution, un’altra canzone dove ad un certo punto, totalmente random, si inserisce un vocoder femminile celestiale e tu d’improvviso ti senti in pace con il mondo e un tutt’uno con le cuffie. Ciliegina sulla torta dell’album sono inoltre le collaborazioni: oltre a quelle già citate qui sopra troviamo KUČKA nell’ipnotica Numb & Getting Older, gli svedesi Little Dragon in Take a chance e infine il buon Beck, sempre sul pezzo quando si parla di sperimentazioni electro, che chiude magistralmente il disco (il cui unico, minimo, difetto è la lunghezza) con Tiny Cities.
Cos’altro aggiungere: grazie a Skin, Flume è riuscito a portare a termine un progetto estremamente rischioso e originale, asfaltando i suoi colleghi internazionali che negli ultimi tempi hanno creato solo copycat del template Swedish House Mafia erroneamente convinti di poterlo riproporre all’infinito senza stufare. Personalmente non vorrei esagerare ma credo che con questo disco in un certo senso Flume abbia inventato un nuovo genere dando così vita a quello che, a mio modesto avviso, è ad oggi il più bel disco dell’anno.