Raramente, come nel caso di Mon cœur avait raison, terzo disco solista di Maître Gims (membro del collettivo Sexion d’Assaut), mi è capitato di faticare così tanto ad iniziare una recensione, e questo nonostante dopo il terzo ascolto io avessi già perfettamente in mentre cosa dire: non so esattamente il motivo dei miei tentennamenti, forse è tutto legato al fatto che quest’album è infinitamente lungo ed è quindi faticoso iniziare a parlarne con la prospettiva di dover commentare la stragrande maggioranza dei brani (tirando fuori qualcosa di buono, magari). Oppure, forse, tutto il casino che avevo in testa è dipeso dai tanti (forse troppi) collegamenti mentali che ho creato fra quest’album e la mia lunga esperienza di lavoro in Francia, chi lo sa. Sta di fatto che per mettermi finalmente a scriverci sopra c’è voluto un viaggio della speranza su uno di quei classici regionali luridi di Trenitalia, vi dico solo questo. Ma andiamo con ordine.
Mon cœur avait raison è, innanzitutto, un prodotto perfettamente in linea con i gusti di un certo tipo di pubblico francofono (non parlo di madrepatria perché Gims la nazionalità francese ancora non ce l’ha) e allo stesso tempo piuttosto distante dall’orecchio dell’italiano medio, che pur apprezzando certe boiate epiche (gli amici di Maria, i Modà, le solite canzoni di Vasco) tende a preferire le tamarrate usa e getta con la T maiuscola solo per brevi periodi, tendenzialmente durante la bella stagione. È quindi interessante che il primo singolo estratto dal disco, la trascinante Est-ce que tu m’aimes, sia arrivata nel nostro paese e abbia fatto sfaceli nel pieno dei mesi invernali, che di solito vedono salire in classifica soltanto ballatone strappalacrime. Certo è che dietro l’ascesa dell’artista congolese c’è un preciso progetto di marketing di Sony, che aiutata anche da certe radio ha avuto la geniale illuminazione di portare questo artista in Italia spinta dall’ indubbio appeal commerciale del singolo qui sopra citato.
Il concetto che volevo esprimere all’inizio, in soldoni, è che questo disco è il classico misto di rap, r&b, etnica, dancehall e reggaeton che potreste sentire trasmessa a palla dallo smartphone di un ragazzino di colore della banlieue parigina in giro a ciondolare: nessun razzismo, sia ben chiaro, anche perché penso che molti di voi abbiano compreso il senso delle mie parole. C’è tutta una categoria di ascoltatori, particolarmente di origini africane e di giovane età, che nei rispettivi paesi impazziscono per questo stile musicale, perfetto per provarci con le ragazze in discoteca a colpi di bacino e per fare casino sui mezzi pubblici. Per qualunque altro utente Mon coeur avait raison suona come un disco orecchiabile, nulla più. C’è però un piccolo ma.
L’album si sviluppa in realtà su due linee profondamente diverse, che in un modo o in un altro si muovono fra pezzi un po’ stupidini (Habibi, Hasta Luego, oppure Tu va me manquer, che sembra una Teenage Dream francese) e altri invece molto più validi, sia da un punto di vista melodico sia da un punto di vista testuale: la pillola blu e la pillola rossa fra le quali l’ascoltatore può scegliere, come un moderno Neo, rappresentano la parte rispettivamente più pop e quella più rap di Maitre Gims, che prende da certi punti di vista l’eredità di esempi celebri come Stromae (in realtà molto più profondo e graffiante) e Mc Solaar, vero e proprio guru del rap Made in France. Su questo secondo fronte, il disco (che fra le altre cose contiene un’inedita collaborazione con Sia, nel bel remix di Je te pardonne) acquista tutt’altro spessore.
Il rap francese, contrariamente a quello italiano, vanta non solo una lunga tradizione (e quindi delle basi più solide) ma anche uno stile più diretto e convincente, forse proprio in ragione della struttura della lingua stessa e della situazione delle periferie metropolitane, decisamente più malfamate (e quindi fonte di ispirazione) per esempuo rispetto all’hinterland milanese “cantato” da gente che ormai ha dimenticato cosa sono le rime vere, vedasi Marracash o Fedez. Anche in questo caso non mancano gli scivoloni (tipo i campanelli della base di Longue Vie, che fanno molto Lil Wayne dei poveri) compensati però da un buon gangsta rap sparso qua e là, come nel caso di La man du roi, probabilmente il pezzo più “politico” dell’intero progetto, ma anche in Mayweather.
Mon cœur avait raison non è in definitiva il disco che ascoltereste nel tragitto in macchina per rilassarvi prima di andare a lavoro, né tantomeno quello che consigliereste agli amici per sentirvi fighetti hipster che ascoltano canzoni in francese: no, l’album non è niente di tutto questo, ma è certamente un’ottima occasione per noi italiani di farci un’idea di come funziona (bene) il rap in un paese tanto vicino, ma allo stesso tempo tanto lontano, come la Francia. Per una volta si parla di musica, e non di bidet, per fortuna.