A pochissime ore di distanza del lancio a sorpresa di Blonde di Frank Ocean, Tom Daley, tuffatore di punta della squadra inglese, precipitava ultimo in classifica nella semifinale olimpica dalla piattaforma dei 10 metri. L’atleta britannico e il musicista statunitense hanno fondamentalmente due cose in comune: il supporto incondizionato da parte della comunità LGBT e l’essere riusciti a sviluppare intorno a sé un pericolosissimo hype, che ha creato intorno ad essi aspettative decisamente molto (forse troppo) alte.
Per poter analizzare a fondo un disco come Blonde bisogna per forza partire con lo spiegone di quello che è successo nel corso degli ultimi mesi/anni: Frank Ocean, interprete e songwriter sopraffino, si è fatto attendere per quattro anni (dopo il buonissimo primo vero album channel ORANGE) scrivendo e collaborando qua e là a dei pezzi clamorosi come No church in the wild di Kanye West/Jay-Z e Superpower di Beyoncé. Era da diverso tempo che il mondo aspettava il suo ritorno, con dei livelli di ansia tali che lo stesso nome di Ocean si era ormai quasi trasformato in una sorta di meme: l’artista aveva più di recente alimentato le speranze dei fan suggerendo che il titolo del nuovo album (in uscita ad agosto) sarebbe stato Boys Don’t cry e anticipandone la pubblicazione con un inutile streaming e un visual album come ENDLESS che personalmente mi aveva un po’ lasciato con l’amaro in bocca.
Poi, d’improvviso, è arrivato Blonde, un progetto composto da 17 canzoni che ho ascoltato in piena notte perché anche io ormai morivo dalla voglia di godere della nuova musica di uno degli artisti più in vista del panorama internazionale. Non me lo sarei mai aspettato (anche se, ad onor del vero, avevo fiutato la cosa) ma non sono rimasto per niente soddisfatto dal risultato finale. Non che il disco sia brutto, per carità, è un prodotto di qualità ben superiore a qualunque altra starlette del pop in circolazione, ma a tratti mi è sembrato molto pretenzioso e sopra le righe, come se Ocean avesse voluto strafare seguendo la scia di quel Kanye che qualche tempo fa ha pubblicato il suo particolare (e molto difficile da digerire) The life of Pablo.
Partiamo innanzitutto dal sottolineare che non ci troviamo di certo di fronte ad un album R&B tour court, cosa che avrei molto apprezzato: siamo ad anni luce di distanza da channel ORANGE, con le sue melodie delicate, con le sue magnifiche dediche d’amore e con le sue produzioni sporcate di elettronica. Le parole d’ordine sembrano invece essere state “rarefazione” e “indie”: sulla scia dei collaboratori James Blake e Jamie XX, anche Ocean si è lasciato andare ad atmosfere ovattate, a echi distanti e a distorsioni, che purtroppo però in certi punti rischiano la cacofonia e, lungi dall’essere piacevoli all’ascolto, diventano quasi degli esercizi di stile per soli intenditori.
Il disco ti strania fin dalle primissime note di Nikes, un singolo di lancio sviluppato su diversi livelli dedicato ai tranelli del materialismo edonistico; il resto dei pezzi presenti nella prima parte dell’album si lasciano ascoltare pure con un certo piacere, qui troviamo infatti le validissime Ivy e Pink+White con Beyoncé (mi ha ricordato, e non a caso, Speakerboxx degli Outkast, da ritrovarsi poi in Solo) che però ci fanno pensare, in modo ingannevole, che il resto delle canzoni saranno sulla stessa lunghezza d’onda.
Al contrario, nel progetto incontriamo tanti momenti di apparente cazzeggio, di parole buttate a caso (spiegatemi cosa significa, per esempio, il testo di White Ferrari), pezzi stupendi come Self Control che ti riportano a The Miseducation of Lauryn Hill e poi intro che ti vorresti tagliare le orecchie e urla di bimbi random su Pretty Sweet. Nel mezzo, uno skit della madre che lo invita a non farsi (Be Yourself), una strana segreteria telefonica dove un ragazzo francese racconta di una relazione complicata con una ragazza mediata da Facebook, il breve racconto di un appuntamento al buio con un altro ragazzo in Bad Boy e immagini confuse di una notte di erba e rimpianti in Nights. Il tutto, almeno in apparenza, senza un filo conduttore o una chiave di lettura ben precisi.
Nonostante l’album riprenda vita con Siegfried, sono definitivamente ripiombato nell'”eye-roll mood” quando ho ascoltato la conclusiva Futura Free, un altro flusso di coscienza accompagnato da distorsioni varie, elettronica e un giro di piano semplicissimo che sembra non terminare mai, tant’è vero che dura quasi 10 minuti.
Blonde di Frank Ocean è uno di quegli album sul quale ci potresti passare ore a discutere, soprattutto se hai degli amici che di musica se ne intendono: trovo personalmente che sia un interessante spunto di dibattito riguardo a che cosa sia la vera qualità artistica di un disco e cosa invece sia il mero gusto personale, che ti spinge a dare un giudizio (soggettivo) molto buono o molto cattivo su un determinato prodotto musicale.
Sono ancora abbastanza frastornato da tutte queste sonorità e può essere che questo disco sia in realtà un capolavoro (quante ne leggerete di recensioni che lo sopravvaluteranno, quante?) ma al momento l’unica mia certezza è che non ho alcuna voglia di riascoltarmelo, contrariamente a quanto fatto con un altro disco prodotto da Malay come Mind of mine di Zayn Malik che sto consumando da mesi. Credetemi, dire certe cose su un cantante come Frank Ocean un po’ mi spezza il cuore, ma tant’è. Ci rivediamo fra altri 4 anni caro Frank, per stavolta la medaglia d’oro proprio non te la sei meritata.
Tracklist
Nikes
Ivy
Pink+White
be yourself
Solo
Skyline To
Self control
Good guy
Nights
Solo (reprise)
Pretty Sweet
Facebook story
Close to you
White ferrari
Seigfried
Godspeed
Futura Free