Post Malone è uno dei miei artisti preferiti del momento, pochi dubbi a riguardo. Nei giorni scorsi, per la precisione il 6 settembre. Austin Richard Post (questo il suo vero nome all’anagrafe) è tornato con un nuovo disco, il terzo della sua carriera, intitolato Hollywood’s Bleeding.
Come sarà, dunque, questo tanto atteso progetto discografico?
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LA RECENSIONE DI HOLLYWOOD’S BLEEDING DI POST MALONE
Un passettino indietro. A febbraio (ormai mi capita circa una volta all’anno) ho preso armi e bagagli e sono partito alla volta della mia adorata Parigi per godermi il mio primo concerto di Post Malone. L’anno scorso aveva suonato al Rock in Roma, ma ancora non lo conoscevo a dovere. Poi, piano piano, mi ha conquistato, fino a diventare una mezza ossessione.
Il live all’Accorhotels Arena è stato bello, mi sono divertito, ma mentirei se vi dicessi che è stato il mio concerto della vita. Lo stesso, identico discorso lo posso fare anche per Hollywood’s Bleeding, un disco che da certi punti di vista corrisponde un po’ al compitino.
Non mi fraintendete. Post Malone ha dato vita ad un progetto discografico di gran lunga superiore a quello di tanti altri colleghi, soprattutto fra i trapper. Mi sembra ormai piuttosto evidente che la sua non sia (solo) trap, bensì un mix di generi estremamente originale che prende spunto dal rap e lo reinterpreta in chiave soul e a tratti persino country, folk e punk. Hollywood’s Bleeding rappresenta oggi l’essenza di Post Malone e la sua incredibile forza comunicativa. Ma non è un disco che ti apre a metà, diciamo così.
Ad anticipare il progetto, più cupo rispetto ai precedenti (e la copertina, in questo senso, ben lo rappresenta) una serie di singoli uno meglio dell’altro. Si è partiti con la clamorosa (aggettivo che uso troppo spesso e che è eccessivamente generico, ma tant’è) Wow, pezzo che racchiude un po’ il senso di superiorità dell’artista rispetto alla scena in circolazione. I mesi estivi sono stati perfetti per goderci la spensierata Sunflower con il nuovo prezzemolino Swae Lee, mentre l’autunno e il relativo spleen incombente è stato il periodo più azzeccato per la nostalgica (e splendida, pochi giri di parole qui) Circles e l’ancor più valida Goodbyes.
Il disco però, fatica a carburare, ad eccezione di un paio di pezzi da strapparsi le vesti (uno su tutti, il capolavoro a metà fra rock e rap di Take what you want con Ozzy Osbourne e Travis Scott, un po’ uno strascico della straziante Over Now).
Per il resto sì, c’è un Hollywood che sanguina e soffre ma che lo fa indugiando su melodie forse fin troppo facilotte (è il caso di Allergic o della “groovy” Myself).
Da Post Malone noi vogliamo il marcio, quello vero, non delle canzoncine da jukebox e da ballo di fine anno. In almeno tre o quattro casi, questo è il mood generale del disco. Un album piacevole di un artista che ha ancora una valanga di contenuti da dare alla musica mondiale, ma che per molti versi potrebbe in qualche modo essere sintetizzato come un guilty pleasure per chi ancora è troppo acerbo per il rock e troppo vecchio per la trap. Ce ne fossero, in ogni caso, di dischi così.