La prima volta che ho visto i Baustelle dal vivo, io che fino a un paio di anni prima mi fermavo a quello che mi propinava MTV, sono rimasto particolarmente colpito e divertito da una frase pronunciata dal leader Francesco Bianconi, che recitava più o meno così: “adesso applaudano quelli che pensano che i migliori Baustelle erano quelli dei primi tre mesi”. Questa battuta faceva fondamentalmente riferimento al fatto che c’è, nel mondo dell’alternativa, il preconcetto secondo cui un artista perde parte del suo fascino e delle sue qualità artistiche quando viene finalmente acclamato da un pubblico più nutrito ed eterogeneo. Ecco, di tutto questo se n’è parlato anche per il nuovo “fenomeno dell’indie italiano” (chissà quante altre testate l’hanno definito così, che angoscia) Calcutta e per il suo ultimo disco, intitolato ironicamente Mainstream. Lui che, come tanti altri, ha cazzeggiato per un po’ di tempo nei locali romani per poi diventare ufficialmente quello che organizza concerti in giro per l’Italia con la fila fuori e che vanta migliaia di like sui social.
Il giovane Edoardo D’Erme alias Calcutta viene da Latina, luogo descritto malissimo da diversi miei conoscenti, come se l’onta di essere stata una delle capitali del fascismo non fosse mai del tutto sparita: della provincia laziale l’artista ci canta (con sprazzi di elettronica random) tutta la disperazione, il dolore, la desolazione e il grigiore, caratteristiche che però possiamo trovare un po’ ovunque, in tutti quei luoghi dove le relazioni umane sono messe in crisi dalla società, alla quale spesso non riusciamo a stare dietro. Ecco allora che le palazzine della cittadina che fa da sfondo al video del primo e più celebre singolo del disco, Cosa mi manchi a fare, trovano il loro automatico corrispettivo nella frenetica Milano, descritta in un pezzo dal sapore blues come un ospedale dal quale fuggire disperatamente, per quanto possa piacere alla persona alla quale si vuole bene.
Insomma, tutto il mondo è paese per Calcutta, un paese di merda detto proprio fuori dai denti, dove i giornali riportano notizie del cui non frega un po’ un cazzo a nessuno (se non, appunto, ai provinciali, tipo Papa Francesco e Frosinone in serie A). Calcutta si fa così inconsapevole vate del disagio di una generazione che si è rotta le balle di social network, di Modà e di Sii come Bill e ha invece un disperato bisogno di rimettersi intorno ad un fuoco a cantare canzoni stonate e inni generazionali (non che le due cose siano in contrapposizione) come Gaetano o ancora Le barche (Una notte una notte una notte per ricominciare Preferirei del verde tutto intorno Vestiti da Sandra che io faccio il tuo Raimondo). Io, nella sua voce e nei suoi testi, c’ho rivisto qualcosa di Battisti e Rino Gaetano, per farvi capire.
Affrettatevi a pubblicare Calcutta su Facebook, cari ragazzi, perché siete ancora in tempo a fare un figurone con i vostri amici: da qui a qualche mese c’è il rischio che quello che è già uno dei dischi italiani migliori dell’anno diventi, appunto, mainstream e quindi pane per denti dei fan radical chic di Ligabue e Vasco. Per adesso, fortunatamente, starete soltanto condividendo della buona musica che purtroppo (o per fortuna) il Campovolo e le sue fascette a 5 euro non li vedrà mai.
Tracklist
Gaetano
Cosa mi manchi a fare
Intermezzo 2
Milano
Limonata
Frosinone
Intermezzo 1
Dal verde
Dal verme
Le barche