Il punto più basso mai raggiunto da Britney Spears è stato, paradossalmente, quello più interessante in assoluto da un punto di vista musicale: era il 2007 (è passata davvero una vita) e la cantante si trovava nel pieno di una crisi di identità, se così la possiamo chiamare, che l’aveva portata all’abuso di sostanze non propriamente legali e ad una disastrosa performance agli MTV VMA’s talmente sconcertante da lasciare il mondo a bocca aperta. Eppure fu proprio in quel periodo che uscì un disco come Blackout, senza dubbio alcuno il migliore della sua carriera, che concentrava in sé suoni sporchi e produzioni devastanti, quasi a conferma della regola secondo cui è dal letame che nascono i fiori.
Purtroppo o per fortuna, piano piano, Britney si è data una ripulita e i capelli le sono ricresciuti, così come la voglia di fare musica, sempre ammettendo che lei abbia (mai avuto) il benché minimo controllo sui prodotti discografici che l’hanno riguardata. In questa nuova fase della sua vita, il suo nono disco Glory avrebbe dovuto rappresentare un momento di svolta, una nuova era, come se fosse per lei arrivato il momento di dare un taglio netto ai suoi precedenti album e far ascoltare ai fan del materiale originale, stavolta per davvero. Anche se fare peggio di Britney Jean (un disastro, su tutti i fronti) sarebbe stato davvero difficile, si può comunque dire che in un certo senso Britney sia riuscita nel suo intento.
All’interno di Glory ci sono effettivamente suoni nuovi (che è diverso da innovativi) e qualche idea che negli album dell’artista non avevamo praticamente mai sentito: il vero problema è sempre il solito, ovvero la mancanza quasi totale di contenuti e profondità, a mio avviso un fattore fondamentale per poter giudicare positivamente un progetto, per quanto commerciale esso possa essere. Le buone idee ci sono, insomma, ma si scontrano per forza di cose con la pochezza artistica di un’artista schiava da anni di vocoder e playback (sbandierati senza vergogna) e di un team di produttori che sfruttano Britney Spears come un puro brand per i fan che ancora si ostinato chiamarla “La Santa”.
Andando più nello specifico: sorpassando le prevedibili melodie di Invitation, si passa subito all’ascolto di un primo singolo che strizza l’occhio (ma neanche tanto) all’urban come Make me…, dopo tutto non da buttare; la prima vera sorpresa è il beat box in stile Pentatonix che fa da bellissima base a Private Show, una canzone dal testo un po’ ridicolo dove Britney invita il suo “boy” a godersi il suo ballo sensuale e provocante. Si passa successivamente ai piacevoli tamburi tribali di Man on the moon e al primo vero pezzo dozzinale come Just Luv Me, per poi arrivare a due altre presunte bombe del disco come Clumsy e Do You wanna come over che con la loro elettronica e i loro ritmi sincopati puntano a tenerci svegli in attesa del torpore successivo.
Per tornare ad apprezzare qualcosa di veramente interessante bisognerà skippare ben 4 canzoni (che avrebbero potuto essere presenti nell’album di chiunque, non ultima Ariana Grande) arrivando così a What You Need, dove Britney Spears se la sente Christina Aguilera e finge di sgorgheggiare sul fatto che -ha quello che lui vuole, ha quello che lui desidera-. Stendendo un velo pietoso sull’ennesimo utilizzo della moombathon da Lean On in Better, ci avviciniamo poi al finale del disco che, a dire il vero, contiene i brani migliori.
Tralascio il commento sulle trascurabili Liar e If I’m dancing (dove la voce di Britney praticamente scompare, sovrastata da synth e coretti) e passo direttamente alle chitarrine spagnoleggianti di Change Your Mind (No seas cortés) e soprattutto al minimalismo electro (e l’inedito uso della lingua francese) di Coupure Eléctrique, fra le canzoni più interessanti di un album che fa un po’ acqua da tutte le parti.
Mi viene davvero difficile pensare che Britney Spears possa affrancarsi da uno stereotipo pop che ormai è diventato l’unico marchio di fabbrica che giustifica la sua esistenza nel musicbitz mondiale: non è infatti concepibile che una cantante non canti, scriva a malapena e all’interno del progetto non metta niente di suo, se non il viso in copertina (sulla quale bisognerebbe aprire un altro capitolo). Quando si affronta un disco come quello di Britney Spears è dunque necessario applicare un approccio mentale ambivalente: da un lato ci si può mettere le mani in testa, disperandosi per il livello qualitativo a cui certi cantanti si devono ridurre per non deludere una determinata fetta di pubblico; dall’altro si può invece godere di un prodotto semplice, senza fronzoli e danzereccio (per quanto non tutte le canzoni di Glory siano immediate) frutto di un artista che è anche e soprattutto un’icona, ancora prima di essere una cantante. La scelta del punto di vista con cui ascoltare questo disco, insomma, la lascio nelle mani (e nelle orecchie) di voi lettori.
1 Invitation
2 Make Me… (feat. G-Eazy)
3 Private Show
4 Man On The Moon
5 Just Luv Me
6 Clumsy
7 Do You Wanna Come Over?
8 Slumber Party
9 Just Like Me
10 Love Me Down
11 Hard To Forget Ya
12 What You Need
13 Better
14 Change Your Mind (No Seas Cortes)
15 Liar
16 If I’m Dancing
17 Coupure Électrique